Atelier RiForma: dove i vestititi ritornano a vivere

Avete mai sentito parlare di economia circolare? È un modello di produzione e consumo che consiste nella condivisione e nel riutilizzo dei materiali e prodotti già esistenti il più a lungo possibile.
ArtomNews ha intervistato Elena Ferrero, fondatrice, insieme a Sara Secondo, di Atelier RiForma: un’innovativa startup con l’intento di ridurre l’impatto ambientale del settore della moda tessile attraverso la creatività sartoriale e l’applicazione dei principi dell’economia circolare.
– Di cosa si occupa la vostra azienda e da quando è operativa?
Atelier Riforma è una Srl nata nell’aprile 2020 con sede a Torino. Nella pratica raccogliamo abiti usati e diamo loro nuovo valore tramite la lavorazione sartoriale. Abbiamo creato una rete di collaboratori, diffusa ormai in tutta Italia, che – grazie alla loro creatività e capacità sartoriale – trasformano i capi in modo da renderli nuovamente interessanti e alla moda.
Le realtà che hanno deciso di entrare nella nostra rete sono molto varie (e ad oggi sono più di 20): ci sono sarti, modellisti, designer, un brand eco-sostenibile di ricamo a mano, una magliaia. Ma ci sono anche due istituti di moda: l’Accademia Italiana di Moda e Couture e l’Istituto di Moda Burgo Torino. Collaboriamo anche con 5 sartorie sociali nelle quali lavorano persone in condizione di fragilità economico-sociale che, grazie al lavoro, trovano nuove opportunità di sostenersi e integrarsi.
Cerchiamo di rendere efficiente e virtuosa tutta la filiera dei vestiti usati. Abbiamo stretto collaborazioni con due associazioni no-profit che si occupano di raccogliere vestiti e altri beni per persone in condizioni di disagio economico-sociale (il Progetto ABITO e l’Associazione Abraham di Nichelino). A loro vengono dati tutti quegli abiti che Atelier Riforma non riesce a trasformare e che potrebbero essere invece molto utili per le persone alle quali si rivolgono loro (es. giacche a vento, felpe, coperte). Mentre queste ed altre associazioni/progetti di raccolta di abiti usati fanno confluire ad Atelier Riforma gli indumenti ricevuti in sovrabbondanza che non sono utili alla loro utenza (es. abiti da sera, cravatte, camicie, ecc.).
Riteniamo un valore cardine la trasparenza, un dovere verso la persona che dona e un incentivo a comportamenti virtuosi. A questo fine, vogliamo far sentire a ogni donatore il suo impatto positivo sulla società attraverso il sistema di tracciabilità dei capi che stiamo realizzando, elemento distintivo che al momento non è presente in nessun’altra realtà: il percorso di ogni capo donato viene tracciato attraverso un sistema di codici, che permetterà a chi lo ha donato di sapere esattamente dove è andato a finire il proprio indumento (cioè se è stato trasformato, venduto oppure donato).
Con lo stesso sistema, vorremmo permettere a chi acquista un abito riformato di scoprire quale lavoro sartoriale è stato eseguito sul capo e da chi, ma anche quale impatto positivo sull’ambiente è derivato dall’acquisto, in termini di risparmio di risorse naturali.
– Com’è nata l’idea di questo progetto?
L’idea di Atelier Riforma è nata all’interno del percorso formativo “Talenti per l’Impresa” della Fondazione CRT. Lo spunto iniziale è arrivato da Elena, pensando a una consuetudine che l’accompagna fin da bambina: da sempre riceveva vestiti da fratelli/cugini più grandi, che spesso sua nonna adattava alla sua taglia e ai suoi gusti. Durante il percorso con la CRT (Cassa di Risparmio di Torino) si è unita Sara, che da subito ha abbracciato l’idea e l’ha arricchita di risvolti sociali.

– L’importanza del riciclare e il riusare i capi è un argomento molto caldo in questi anni. Secondo lei, come possiamo far capire alla nostra generazione e a quelle future l’importanza di queste azioni?
C’è ancora bisogno di molta sensibilizzazione, ma i più giovani sono ben consapevoli del problema (la generazione Z e i Millennials tendono a compiere scelte sostenibili quasi “per natura”, perché sono cresciuti a braccetto con l’aggravarsi del problema ambientale). Una cosa a cui però tutti sono esposti è il GreenWashing, cioè le astute attività di marketing di certe aziende che cavalcano il trend dell’ecologia, senza dietro un impegno concreto. Una buonissima parte della popolazione, purtroppo, anche quella più attenta, si lascia “abbindolare” da queste mosse.
Una tematica su cui invece praticamente nessuno è informato è l’enorme problema sociale e ambientale legato ai capi usati dismessi. Il mondo è letteralmente invaso dai nostri rifiuti tessili; disfarci di altri capi usati non fa altro che ingigantire il problema. Questo perché i vestiti usati raccolti nel nostro Paese vengono per la maggior parte esportati in Africa o negli altri continenti. La conseguenza è che stiamo trasformando quel continente nella nostra discarica, perché la maggior parte dei capi viene buttata e i restanti, che vengono rivenduti, hanno prezzi bassissimi, che distruggono l’economia tessile locale. Tant’è che molti Stati africani stanno mettendo dei divieti nell’importazione di vestiti usati nei loro Paesi, perché la situazione non è più gestibile.
Stiamo in sostanza spostando il problema del nostro stile di vita consumistico in altri continenti, senza provare a risolvere qui il problema o a cambiare approccio. La sensibilizzazione si fa mostrando le immagini di che cosa vuol dire tutto questo: i numeri non bastano più, perché il problema è troppo complesso. Si fa portando trasparenza nella filiera, tirando fuori tutte le infiltrazioni della criminalità organizzata, tutta la mala gestione dei rifiuti tessili, tutte le responsabilità non prese da parte dei brand di fast fashion.
Senz’altro una piccola startup non può farlo da sola, ma può servire a chiedere regolamentazioni più stringenti e controlli più a tappeto da parte delle autorità competenti. Uno spiraglio ci giunge da una nuova normativa che verrà applicata nei prossimi anni. In seguito all’approvazione del Pacchetto rifiuti europeo sull’Economia circolare tutti gli Stati membri entro il 2025 dovranno rendere obbligatoria la raccolta differenziata della frazione tessile dei rifiuti urbani (scadenza che in Italia è stata anticipata al 2022) e gestire quanto raccolto in modo sostenibile.
– Riciclare i vestiti non è certo una cosa da poco, quali sono i materiali più difficili da riutilizzare?
Per niente facile! Pensate che solo il 13% del totale dei tessuti prodotti nel mondo viene in qualche modo riciclato e meno dell’1% viene riciclato in nuovi vestiti. I problemi sono essenzialmente due: i vestiti di oggi non sono quasi mai costituiti per il 100% da un unico materiale (es. cotone, lana, ecc), ma sono spesso una mescolanza di materiali differenti e ciò comporta l’impossibilità di effettuare il riciclo meccanico della fibra (ossia di distruggere il tessuto e ricreare il filato riciclato).
Seconda cosa, il processo di selezione e smistamento dei vestiti usati raccolti, processo essenziale per permetterne il riciclo, è molto lungo e dispendioso. Attualmente alle aziende che si occupano della raccolta di vestiti usati conviene quasi buttare via i capi in discarica che impiegare tempo e risorse per capire di che materiale sono fatti e riciclarli. È proprio per questo che stiamo cercando di sviluppare con l’ausilio di un partner una tecnologia che faciliti la selezione e catalogazione dei capi d’abbigliamento usati, in modo che la quota che finisce in discarica sia ridotta di molto.
In sostanza, sogniamo che un giorno il settore tessile-moda diventi interamente circolare, un modello completamente rigenerativo in cui nessun capo d’abbigliamento alla fine della sua vita viene sprecato, ma rientra in continuazione nel ciclo economico, producendo nuovo valore e opportunità di lavoro.

– Qual è, secondo lei, il primo passo da fare per far sì che le aziende si avvicinino a un grande cambiamento nell’industria della moda? Tra i “big” della produzione di abbigliamenti, quali sono, a suo avviso, le aziende che rispettano a pieno un’idea di produzione etica?
Il primo passo lo fanno i consumatori. Decidendo di non acquistare più da brand che inquinano o sfruttano i lavoratori, come quelli della fast fashion. La fast fashion (per intenderci quella di H&M, Zara ecc.) è caratterizzata da un rapido alternarsi di nuovi stili e un elevato numero di collezioni per anno a prezzi stracciati. La vita di questi vestiti è brevissima, poiché i capi sono di bassissima qualità: si stima che più della metà di tutta la fast fashion prodotta venga buttata entro un anno.
Questo tipo di aziende è anche il primo a professarsi “green”, pubblicizzando progetti apparentemente virtuosi volti alla sostenibilità, per poi nella pratica continuare a produrre la maggior parte delle proprie collezioni con processi criticabili dal punto di vista etico e ambientale. Chi è che fa veramente moda sostenibile? Chi fa economia circolare. Cioè chi non estrae risorse vergini dal pianeta per la produzione di nuovi capi d’abbigliamento, né dà luogo a emissioni o altre forme di inquinamento durante il processo produttivo. In sostanza, chi utilizza ciò che già esiste come materia prima (i vestiti usati) e non richiede nuovo materiale ed energia alla Terra.
Certo non è facile. Noi ci siamo posti l’ambizioso obiettivo di contrastare l’attuale cultura dell’usa e getta e azzerare lo spreco nell’industria della moda. Il nome “Riforma”, infatti, si riferisce non solo al dare nuova forma agli abiti, ma anche a realizzare una vera e propria riforma del nostro modo di produrre e consumare, passando dall’ottica lineare “produco, uso, butto” a quella circolare “produco, uso, riformo”, ossia un continuo trasformare, riconcepire, riutilizzare, creare dal vecchio, innovare l’obsoleto.
– Vede improbabile il futuro della moda etica come modello dominante in grado di imporsi sulla filiera tradizionale?
Al contrario, è l’unico modo che abbiamo per salvare il pianeta. La richiesta di capi d’abbigliamento non verrà mai meno: il modo più sostenibile per rispondere a questo bisogno sarà produrli con un modello circolare; utilizzando i beni che già esistono e non producendo nuovi capi d’abbigliamento da zero. Serve però che la spinta parta dai consumatori. Gli acquisti dei consumatori all’interno di un modello circolare non fanno altro che incoraggiarlo e permettere a chi lo realizza di sostenersi e di non interrompere il cambiamento positivo che sta cercando di portare nel modello.